Cessione d’azienda e avviamento: no della Cassazione al calcolo della plusvalenza basato sul criterio previsto per l’imposta di registro.
Scritto da Giovanni Benaglia
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Non è possibile accertare induttivamente il valore dell’avviamento, e la relativa plusvalenza, in caso di cessione d’azienda utilizzando il criterio previsto dalle norme in materia di imposta di registro.
Così stabilisce la Corte di Cassazione, sezione V civile, con sentenza numero 29151 del 11 ottobre 2023 e pubblicata il 19 ottobre 2023, nel giudicare una lite assai curiosa nella quale un contribuente si è visto rettificare il valore dell’avviamento in caso di cessione di impresa, sulla base del criterio induttivo stabilito dalle norme in materia di imposta di registro. La curiosità sta nel fatto che il contribuente non aveva mai ricevuto alcun avviso di accertamento per questa imposta.
Gli Ermellini, nel rigettare sia la tesi dell’Agenzia delle Entrate che quella della Commissione di Secondo Grado, partono dal dettato dell’articolo 86 del Tuir nel quale si stabilisce che la plusvalenza, in caso di cessione d’azienda, è calcolata come differenza fra il corrispettivo ricevuto, al netto degli oneri accessori, e il costo non ammortizzato. Nel calcolo concorre anche l’avviamento, assunto al suo valore fiscale. Stabilito questo, la Corte riprende una sua passata sentenza, nella quale si osserva che “in tema di imposte sui redditi, la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 5, comma 3, del D. Lgs. 147/2015, avente efficacia retroattiva, esclude che l’Amministrazione finanziaria possa determinare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata dalla cessione di immobili e di aziende solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria o catastale, dovendo l’Ufficio individuare ulteriori indizi, gravi, precisi e concordanti, che supportino l’accertamento del maggior corrispettivo rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, su cui grava la prova contraria”. In sostanza, l’eventuale maggior valore determinato in sede di accertamento dell’imposta di registro, può essere un indice di una presunta evasione sulla plusvalenza, ma di per sé non è sufficiente a dimostrarla liberando, altresì, l'Ufficio dall'onore di una ulteriore dimostrazione e girando al contribuente la fatica di dimostrare il contrario. Occorre, come stabilisce la Corte di Cassazione nella sentenza in commento, che l’Ufficio proceda ad individuare ulteriori elementi di gravità tali da far presumere, in maniera fondata, l’esistenza di un provento non dichiarato. Si osserva, infine, che nel caso in esame, che non c’era stato nemmeno un accertamento ai fini dell’imposta di registro, per cui il comportamento dell’Ufficio è stato quantomeno pittoresco.